Musica, la riforma del lavoro ai concerti è uno spartito tutto da arrangiare

16 Luglio 2023

La cosa chiara a tutti – almeno a quelli sintonizzati sull’ultimo tormentone o in fila per il concerto della loro band preferita – è che la musica è un elemento imprescindibile del paesaggio estivo, in Italia come nel resto del mondo. Meno chiaro è il fatto che stiamo parlando a tutti gli effetti di un settore economico con segmenti di business ben definiti che creano sviluppo, generano indotto e soprattutto occupano qualcosa come 169mila persone.

Per anni lo abbiamo ignorato, forse perché chi è sul palco è così “grande” ai nostri occhi da fare ombra a chi è dietro di lui a permettere che lo show vada avanti. Poi c’è stato il Covid, il biennio in cui gli spettacoli sono stati fermi o si sono svolti a scartamento ridotto: all’improvviso ci siamo accorti che il settore esiste e che a tenerlo in piedi sono spesso e volentieri le braccia di lavoratori invisibili. Si disse che quella era un’occasione imperdibile per riformare un comparto che godeva di poche tutele, attraverso strumenti come il Codice dello Spettacolo e in particolare l’indennità di discontinuità. A distanza di un anno dalla ripresa a pieno regime degli spettacoli dal vivo, al Codice dello Spettacolo mancano ancora i decreti attuativi e non sono poche le perplessità di imprese e lavoratori. Perché il music business, in Italia più che altrove, è un mondo che fa fatica a fare sistema, con tutte le ricadute del caso in termini di rappresentatività ai tavoli istituzionali. Ma andiamo con ordine.

Quanti sono i lavoratori

Qualsiasi considerazione sul lavoro nella musica non può prescindere da una mappatura scientifica del fenomeno. E qui ci scontriamo con la prima criticità: non esistono studi costantemente aggiornati sui lavoratori di settore divisi per segmento. L’ultimo tentativo risale alla seconda edizione del Rapporto Italia Creativa (2017) che censiva quasi 169mila addetti tra artisti (74mila), occupati in attività concertistiche (40.600), lavoratori della discografia (2.400) e indiretti vari. Numeri che andrebbero rivisti, considerando che il Covid, con gli spettacoli più o meno fermi per un biennio, ha sicuramente “mosso” quei valori tra uscite ed entrate. «Già il fatto che non ci sia un osservatorio che tiene costantemente sott’occhio le dinamiche di settore», sottolinea Annarita Masullo, presidente dell’associazione la Musica Che Gira, «e che, in passato, rappresentanti istituzionali si siano avventurati in stime tutt’altro che realistiche la dice lunga sulla considerazione di cui purtroppo gode il settore».

La posizione più scomoda è quella dei lavoratori che operano nel segmento live, precari quasi per definizione. Mica per caso l’espressione gig economy deriva da “gig”, le sessioni a gettone tenute dai turnisti. «Assieme a Left Wing», prosegue Masullo, «a giugno, abbiamo tenuto a Roma gli Stati Generali dello Spettacolo per incalzare il legislatore su partite centrali per chi lavora in questo settore e spesso è precario, come l’indennità di discontinuità».

Gli interventi post Covid

Il legislatore, dopo il Covid, ha infatti provato a intervenire a sostegno del settore in due modi: da un lato con il Decreto Sostegni Bis, dall’altro con il varo del Codice dello Spettacolo, nel frattempo divenuto legge. «Sul primo fronte – commenta Massimo Pontoriero, presidente di Unisca, coordinamento delle associazioni di creatività, arti e spettacolo – parliamo di una misura che non tutelava adeguatamente i lavoratori autonomi». Sul secondo versante, non c’è ancora traccia dei decreti attuativi ma, al capitolo indennità di discontinuità che dovrebbe garantire i lavoratori intermittenti nei periodi di pausa dell’attività live, c’è un aspetto da non sottovalutare: «il calcolo – aggiunge il presidente di Unisca – deve avvenire sulla base del reddito percepito e non delle giornate lavorate. Il che rappresenterebbe un vero e proprio cambio di paradigma che deve valere anche per pensioni, maternità e malattia».